Ebbene lo confesso: quel giorno ho tremato. Deluso dalla penultima partita che mi aveva visto raggiungere la città del sole insieme a qualche altro migliaio di tifosi che da Roma Sud aveva imboccato l’A1 destinazione Napoli dove si credeva di festeggiare il nostro terzo scudo, mi apprestavo a raggiungere la Tevere dove, insieme agli altri incorreggibili amici di sempre, avrei assistito all’atto finale di un campionato a dir poco trionfale: un decisivo Roma-Parma.
90 minuti separavano una città intera dal tricolore quel 17 giugno 2001 e dalla soddisfazione di scucirlo dalle maglie di quella Lazio che lo aveva portato per una stagione intera.
L’Olimpico, e che lo dico a fare?, un catino strapieno di amore, gioia, speranza, tifo e quel trukke trukke che l’allora genuino ed indomito Riccardo Angelini, er Galopeira, aveva tirato avanti durante la trasmissione di Marione.
Eppure, corsi e ricorsi coniugati con la scaramanzia (e chi non ricordava le bandiere Campioni d’Europa del 20 maggio 1984?), avvelenavo quell’attesa che durava ore.
A differenza dell’altro scudetto che avevo visto, non c’erano più i Falcao e i Di Bartolomei di un tempo bensì Totti, Montella e quel Batistuta che il presidente Sensi ci aveva regalato spendendo ben 70 miliardi.
Questa Roma scese in campo nella sua formazione base che vedeva alle spalle di Antonioli, una difesa composta da Zebina, Zago e the wall Walter Samuel. Un centrocampo con il puma Emerson, l’anima candida Tommasi, pendolino Cafù e Candela davanti a Totti trequartista e la coppia delle meraviglie in attacco con l’aeroplanino Montella e il re leone Batistuta.
Chi non ha avuto modo, per questioni cronologiche, di vedere in azione la Roma di Sensi-Capello, deve sapere che era una squadra che divertiva perché si divertiva e lo si poteva vedere sempre dalla coesione di tutti quegli interpreti di una cavalcata dove la Magica è stata sempre capolista.
Eppure…corsi e ricorsi (e giù grattate agli zibidei).
Novanta minuti. Solo un’ora e mezza di gioco in quell’infuocato stadio arso da un impietoso sole ma, in fondo, ecchisenefregava del caldo e della calca: il sogno si stava realizzando.
Dopo 18 anni stavamo, forse, riportando il tricolore nella Capitale grazie all’aziendalista Fabio Capello, un giorno giocatore giallorosso venduto (per necessità) insieme a Landini e a Spinosi alla Juventus dell’avvocato Gianni Agnelli.
La tensione è palpabile anche quando le squadre scendono in campo e tutti aspettiamo che la nostra Roma faccia il suo dovere: vincere. Ed è proprio Checco che ci porta in vantaggio al 19’ su assist dell’amico Vincent Candela che piazza un passaggio da fondo campo fino all’area dei parmensi: per il bimbo de oro è un rigore in movimento che spiazza inesorabilmente Buffon. Totti impazzito corre togliendosi la maglia sentendo che quel suo (e nostro) sogno si sta realizzando. Anche se il Parma non è il vitello sacrificale, la posta in gioco è talmente alta che non ce n’è per nessuno e arriva il raddoppio, venti minuti più tardi, da parte dell’aeroplanino che raccoglie una ribattuta di Buffon su gran tiro di Batistuta lanciato a rete.
L’intervallo ci vede felici intonare cori, accendere sigarette, discutere tra noi sorridendo ma mancano ancora 45 minuti e la palla è rotonda.
Rientrano le squadre e il gioco procede pensando che un minuto giocato è un minuto in meno allo scudetto. Montella sigla il suo secondo gol che l’arbitro annulla, aumentando l’ansia. Ma l’angoscia scema ad una decina di minuti dal termine e non poteva essere che opera del re leone a siglare la terza rete di prepotenza. È scudetto? Trukke-trukke. Quattro minuti dopo Di Vaio sigla la rete della bandiera di un Parma oramai ridotto all’impotenza ma, ad una manciata di minuti alla fine ecco il caos: il popolo giallorosso abbatte le barriere e circonda il campo di gioco, invadendolo poco dopo del tutto dimentico del fatto che il 90’ ancora non è scoccato.
Ricordo in un flashback irrispettoso un Capello incazzato nero, un Giorgio Rossi – buonanima – che si dannava per far uscire più tifosi possibile dal campo dove avveniva una vera e propria caccia all’uomo con giocatori denudati di maglietta, pantaloncini, calzettoni e addirittura scarpini. Chi di noi rimasti sugli spalti, urlava la propria rabbia contro qualche centinaio di tifosi che stavano seriamente mettendo in gioco un tricolore meritatamente guadagnato. L’arbitro prese l’unica decisione possibile: far rientrare le squadre negli spogliatoi (anche per far vestire gli ignudi) e calmare la situazione con un opportuno break.
Tornata la calma e svuotato il rettangolo verde,
si riprende l’incontro in un clima surreale che dura giusto quella manciata di minuti che mancava al novantesimo e che certifica il terzo scudetto del popolo giallorosso.
Poi, è una kermesse che a distanza di anni ancora viene ricordata con un milione e mezzo di tifosi al Circo Massimo dove la squadra ed il presidente Sensi decisero di festeggiare pubblicamente.
E chi se la scorda più…
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