Ci sarà sicuramente nel cuore di ogni tifoso una partita da ricordare o per meglio dire la partita del cuore, quella che non si scorda mai, come e forse più del primo amore, insomma il ricordo di sempre.
La partita che ci ha regalato attimi di felicità che forse mai più proveremo, che ci ha reso fieri di appartenere a quei colori che ci accompagneranno per sempre nel cammino della nostra vita.
E’ veramente difficile tradurre in un pezzo le emozioni e le sensazioni vissute in quella giornata in cui si è svolto un avvenimento unico e irripetibile che segna la mia memoria di tifoso.
Era il 16 Marzo 1986 ed avevo 12 anni e mezzo: provate ad immaginare un ragazzino napoletano che aveva vissuto in una famiglia con un padre ovviamente tifoso del Napoli ma molto pacato e due fratelli, molto più grandi di lui, rispettivamente di 8 e 10 anni, accesissimi tifosi della Juve.
Vi chiederete come diavolo fosse stato possibile che quel ragazzino potesse mai tenere per la Roma: è una storia lunga e anche un po’ romantica.
La nostra vicina di casa aveva una nipote, figlia del fratello, molto tormentata, di nome Francesca che viveva a Roma e che periodicamente veniva spedita (mi scuserete del termine leggermente brusco) dalla Zia al fine di riuscire a calmare le sue inquietudini legate ai problemi intercorrenti tra i genitori che erano in procinto di separarsi legalmente.
Era una bambina di appena 10 anni e non vi nascondo che soffriva parecchio la delicata situazione familiare: molte volte la cara Elena, così si chiamava la nostra vicina, era costretta a rivolgersi a mia mamma che aveva più anni rispetto a lei, per cercare di calmare la povera bambina, spesso i preda alle crisi di pianto.
La povera mamma, a volte riusciva nel suo intento, tante altre volte no.
Giocavo insieme a quella bambina che però già aveva una passione sfrenata per la Roma e così, a furia di frequentarla, finii per diventare inevitabilmente ed aggiungo inconsapevolmente, un tifoso della nostra cara amata.
Una storia strana che forse conferma l’assunto che le cose belle sono quasi sempre frutto di un destino che, nonostante le nostre resistenze, non possiamo cambiare.
In quel campionato la Roma di Eriksson aveva disputato un girone di andata piuttosto altalenante: tante vittorie tra le mura domestiche e altrettante sconfitte su terreni non proprio inespugnabili come Avellino e Bari.
L’ossatura della squadra che aveva ottenuto tanti trionfi nell’era Liedholm non era stata per la rivoluzionata: il presidentissimo Viola aveva scelto l’anno precedente un tecnico moderno, Sven Goran Eriksson, capace di impostare un tipo di gioco altrettanto moderno fatto di pressing a tutto campo e ripartenze veloci.
L’impatto del nuovo tecnico con la squadra non era stato per la verità dei migliori: i giocatori erano abituati ai ritmi lenti di Liddas e non riuscivano a realizzare sul campo ciò che chiedeva il nuovo tecnico.
A partire però dal 5 Gennaio 1986 ovvero dalla prima giornata di ritorno disputata contro l’Atalanta e vinta 4-2, qualcosa cominciò per incanto a cambiare: Zibi Boniek si trasformò in un giocatore universale capace di macinare chilometri di campo, di cantare messa e portare la croce, Roberto Pruzzo ritornò o Rey di Crocefieschi, insomma tutta la squadra divenne una squadra, ovvero un gruppo granitico, capace di imporre un gioco spettacolare e redditizio.
La nostra amata fu capace di rosicchiare 8 punti in 13 partita alla Juventus al punto da arrivare ad acciuffarla in testa alla classifica a due giornate dalla fine del torneo.
Torniamo allora al 16 Marzo 1986: è una tiepida giornata di primavera, si disputa il match dell’anno contro la nemica di sempre, la vecchia signora.
Arbitra Luigi Agnolin, lo stadio è imbandierato di giallo e di rosso in una coreografia stile Hoollywood di una bellezza indescrivibile: si staglia su tutte una figura che indossa gli occhiali scuri, è Dino Viola che fiero della sua gente, osserva ed ammira in piedi lo spettacolo più bello che forse abbia mai visto.
Viene letta la formazione: Tancredi, Oddi, Gerolin, Boniek, Nela, Righetti, Graziani, Cerezo, Pruzzo, Ancelotti, Di Carlo.
È la venticinquesima giornata di campionato e la Juve si presenta all’Olimpico con 5 punti di distacco: sette giorni prima la Roma era uscita sconfitta dal Bentegodi con un gol Briegel al 93° e la batosta sembrava aver ridimensionato le pretese sul successo finale nel torneo.
Si parte, pronti via e su angolo di Antonio di Carlo segna di testa Ciccio Graziani.
E l’uno a zero e lo stadio è già in visibilio.
Pochi minuti dopo, su cross di Ancelotti, bomber Pruzzo di testa la insacca e poi corre sotto la curva con la maglia in mano.
E’ il due a zero e niente può fermarci nemmeno l’espulsione di Pruzzo nel secondo tempo. Nell’intervallo la solita intervista di Gianpiero Galeazzi al Presidente Viola: “Presidente ha visto Boniperti?”, “No non l’ho visto ma non mi chiedi come mi sento”, “Come si sente?”, Mi sento molto bello”.
Nel secondo tempo il terzo gol di Cerezo su cross di Nela.
Finirà tre a zero.
Sono passati tanti anni da allora, tante gioie e molte delusioni hanno attraversato il mio cuore, ma non ho mai più visto quella coreografia maestosa, frutto di un intenso lavoro compiuto nei giorni precedenti la gara, e che trovò vita grazie ad un gruppo di ultrà giallorossi: era costituita da una serie di festoni che, al segnale convenuto, ricoprirono interamente di giallorosso gli spalti dell’Olimpico.
Al fischio finale mi sentivo felice ed invincibile: mi è impossibile spiegare quello stato di grazia, molto prossimo all’estasi, e che colmò lo spirito di una forza prodigiosa che non ho mai più provato da allora.
Così recitava il ritornello una canzone di qualche tempo fa interpretata dalla dolcissima Antonella Arancio:” sono i ricordi del cuore, che ti fanno innamorare e ti ridanno calore, ti rimettono su in piedi e sanno tutti i segreti degli amori che tu hai già scordato e non ricorderai più”.
E si, l’autore di quel pezzo aveva capito proprio tutto dei ricordi del cuore.
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